Stavolta io, Chiara, prendo la parola in prima persona per raccontarti perché ho visitato ben 4 campi di concentramento: Auschwitz, Birkenau, Mauthausen e la Risiera di San Sabba.
Indice
Come tutto ha avuto inizio
Come ti ho già raccontato in altri articoli, come ad esempio quello dedicato alla Normandia, mio padre era un appassionato del periodo storico che ha avuto come triste protagonista la Seconda Guerra Mondiale. E non poteva certo non essere interessato anche alla pagina dei campi di concentramento.
Si documentava leggendo libri, guardando film, speciali in tv…tutto quello che poteva. Per l’esame di terza media mi ha aiutata a preparare la tesina a riguardo, che si è trasformata in un maxi raccoglitore pieno zeppo di materiale interessante. Sono sicura che mia suocera, all’epoca mia insegnante, se lo ricorda bene. E più leggevo, più imparavo nozioni su quella pagina di storia, e più anche io mi appassionavo.
Tanta teoria quindi, sia per me che per papà…ma quello che ci mancava era vedere coi nostri occhi.
Ecco perché abbiamo iniziato una serie di viaggi volti a raggiungere i principali campi di concentramento nazisti, viaggi che abbiamo affrontato coi mezzi più disparati ma mai in camper.
In principio fu San Sabba: il campo di concentramento a Trieste
Il primo tra i campi di concentramento che abbiamo visitato si trova in Italia, a Trieste. Ed è triste vedere che in tanti non sanno neanche della sua esistenza. In tanti, sì, ma per fortuna non tutti.
Il taxista che ci ha portato lì però, triestino doc, non ne sapeva niente, e abbiamo dovuto girare un bel po’ prima di giungere a destinazione. Eppure qui sono morte tra le 3000 e le 5000 persone, quindi non parliamo di numeri bassi. Ebrei, prigionieri politici, civili…fucilati, impiccati, avvelenati o bastonati. E poi ovviamente bruciati nei forni crematori.
La Risiera di San Sabba, chiamata così perché qui una volta veniva lavorato ed essiccato il riso, non era un campo di sterminio propriamente detto, ma non importa. Di orrori e di atrocità ne ha viste tante lo stesso. E tutto questo sotto il naso di tanti italiani, che magari allora non sapevano, o non hanno potuto (o voluto) fare niente…Ma oggi? Perché anche oggi c’è chi nega che l’olocausto sia mai avvenuto, che osa affermare che i morti siano stati pochi e per giunta dovuti a cause naturali.
Seriamente?
Se sei fra quelli che la pensano così, và a Trieste, visita il castello di Miramare e goditi la vista di Piazza Unità mentre gusti una pasta sfoglia ripiena di crema comprata alla pasticceria Pirona…ma poi và anche a San Sabba. E rifletti sul fatto che tutto questo non solo è avvenuto, ma è avvenuto anche in casa nostra.
Milano e il binario 21
Sempre in Italia vi è un altro luogo iconico: il binario 21 alla stazione di Milano Centrale. Con papà l’ho tanto cercato, ma all’epoca non l’abbiamo trovato. Anzi, ci siamo pure persi…anche perchè per trovarlo dovrai scendere “sotto” la stazione.
Fisicamente si trova sotto il 18esimo binario: da qui partirono, tra il 1943 e il 1945, i treni pieni di deportati ebrei e oppositori politici diretti ai campi di sterminio nazisti. E indovina quanti ne tornarono…
Oggi diventato Memoriale della Shoah di Milano, presenta scritta a caratteri cubitali la parola INDIFFERENZA. Sentimento che i deportati dell’epoca hanno percepito intorno a loro, e che purtroppo permea l’animo di tanti ancora oggi. Se qualcosa non mi riguarda, allora non mi tocca.
Visibili quattro dei carri merci usati per condurre nei campi di concentramento i prigionieri, e incisa sul muro una lunga lista di nomi: furono ben 774 i deportati che partirono da Milano, compresa Liliana Segre, ma solo in 27 sopravvissero.
Mauthausen, il campo di concentramento austriaco
Questo viaggio io e papà lo abbiamo affrontato in moto, con un misero bagaglio ma attrezzati con tuta impermeabile perché il tempo non era promettente. Beh, le previsioni in quell’occasione sbagliarono in pieno, e noi patimmo il caldo in modo atroce, tutti belli avvolti in questo pseudotessuto sintetico nero come l’inchiostro.
Dopo una bella visita a Vienna, città che amo in modo folle, la nostra due ruote ci condusse a Mauthausen. Ora, devi sapere che il campo di concentramento in questione sorge a pochi passi dal piccolo paese omonimo, e sembra assurdo che nessuno dei cittadini di zona si sia mai accorto di nulla. Talmente assurdo che per punizione gli americani, quando liberarono il campo, obbligarono gli abitanti del posto a recarvisi per far sì che potessero vedere coi propri occhi gli orrori che vi erano all’interno. E questo avvenne subito dopo la liberazione di Mauthausen, quando il fetore dei morti impregnava ancora l’aria e i cadaveri erano ancora buttati qua e là (almeno quelli che non avevano fatto in tempo a “passare per il camino”, come cantava Guccini).
Mauthausen era il solo campo di concentramento classificato di “classe 3”: era quindi un campo di punizione e di annientamento attraverso il lavoro. Che vuol dire?
La morte a Mauthausen
La risposta è semplice: i prigionieri venivano fatti lavorare giorno e notte nella vicina cava di granito, col compito di estrarre enormi blocchi di pietra. Già questo sarebbe pesante, ma non basta: per raggiungere la cava dovevano percorrere quella che è tristemente nota come la “scala della morte“, ovvero 186 gradini ripidissimi che i deportati dovevano scendere e poi risalire caricandosi addosso massi enormi. Per rendere ancora più complesso il tutto i prigionieri indossavano zoccoli di legno, che si trasformavano in pattini quando in inverno sui gradini della scala si formavano lastre di ghiaccio. E se uno dei prigionieri scivolava e cadeva si portava giù tutti quelli che gli stavano dietro, in una reazione a domino. Senza contare che i nazisti amavano far cadere loro stessi qualcuno per godersi lo spettacolo.
Ovviamente i prigionieri erano sfiniti dal freddo, dalla fame, dalla sete e dalla fatica, ma ti dico: anch’io che sono scesa per la scala, pur attrezzata con scarpe da ginnastica, ben pasciuta e riposata, e senza neanche uno zainetto in spalla, stavo cadendo. Mi sono presa un colpo a dire poco.
C’era poi, tanto per non farsi mancare nulla, anche il “muro del paracadutista“: una parete di roccia a caduta verticale, alta e ripida, dalla quale le SS gettavano i prigionieri e il loro carico. E anche qui talvolta si creava un effetto domino poco piacevole.
I campi di concentramento polacchi: Auschwitz e Birkenau
Ne parlo come se fossero due campi diversi e distinti, ma in realtà il loro ruolo era più che intrecciato perché facevano parte di un unico complesso realizzato per attuare la “soluzione finale“.
Auschwitz
Auschwitz viene preso ad esempio come campo di sterminio, ma in realtà era “solo” un campo di lavoro e prigionia. Era a Birkenau che venivano inviate le persone destinate alla morte.
Intendiamoci, non che Auschwitz fosse il Paese dei Balocchi: già entrando dal cancello sovrastato dalla celebre frase ” Arbeit macht frei“, ovvero “il lavoro rende l’uomo libero”, sarai pervaso da un senso di ansia e claustrofobia. Ovunque filo spinato, ma per lo più edifici in mattoni e muratura, non le baracche di legno sgangherate che vedrai invece a Birkenau. Qui i prigionieri dovevano lavorare, quindi erano trattati un filo meglio…se così si può dire. Ma morivano anche loro, eccome se morivano! Per impiccagione e fucilazione per esempio, ma anche in modi più pittoreschi: alcuni detenuti dovevano per esempio trainare una strano veicolo con un grande cilindro di pietra come ruota, e se qualcuno inciampava…beh, il cilindro lo schiacciava, semplicemente.
Qui furono detenuti omosessuali, prigionieri politici, prostitute, ebrei… Trovò persino la morte un religioso, Padre Kolbe, che sacrificò eroicamente la sua vita per salvare quella di altri prigionieri. E qui lavorò ai suoi crudeli esperimenti Mengele, il “medico della morte, tanto ossessionato dai gemelli.
Gli averi sottratti ai detenuti, come occhiali, scarpe e oggetti vari, sono ancora conservati in enormi teche. Sono tutti ammucchiati, e potrai renderti conto subito della mole di persone che sono passate da qui. Magari per non fare poi più ritorno a casa. Montagne di capelli, denti d’oro pronti per essere fusi, ma anche barattoli su barattoli di Zyklon B usato per gassare i deportati. E poi le saponette, fabbricate dalle ossa dei morti.
Tutto questo non è raccontabile a parole, bisogna vederlo. Io credo fermamente che almeno una volta nella vita chiunque dovrebbe andare ad Auschwitz per toccare con mano.
Birkenau
Diverso Birkenau, ancora più spoglio e derelitto di Auschwitz. Qui i deportati giungevano in treno, percorrendo il binario ancora oggi presente. Alloggi minuscoli e freddi, dove dormivano ammucchiati decine di prigionieri. E lì il freddo in inverno era pungente a dir poco: i campi di concentramento di zona sorgevano isolati, in mezzo ai boschi e al nulla, vicino a corsi d’acqua che rendevano il tutto ancora più umido.
Io e papà ci siamo persi vagando tra le recinzioni di filo spinato, e ammetto che un po’ di panico ci ha presi…
Ad ogni modo qui troverai vari resti di camere a gas e forni crematori, per lo più distrutti dagli stessi nazisti poco prima di fuggire, e c’è chi giura di percepire ancora nell’aria, sebbene molti anni siano trascorsi, l’odore di carne bruciata. E sarà suggestione sicuramente, ma…
La cosa che mi ha colpita di più però è stata una cosa estremamente positiva: il gran numero di scolaresche in visita. Composte da giovani riuniti in cerchio, in silenzio e alcuni con le lacrime agli occhi e sinceramente commossi.
C’è ancora speranza allora che tutto questo sia capito e non dimenticato…
Campi di concentramento: conclusioni
Sono fiera di aver potuto visitare questi posti, e altri ancora mi aspettano sebbene molti siano ormai distrutti. Non credo che potrei trovare parole migliori e per certi versi attuali come quelle scritte da Primo Levi nel suo Se questo è un uomo, e allora concludo così. Alla prossima!
“Voi che vivete sicuri
nelle vostre tiepide case,
voi che trovate tornando a sera
il cibo caldo e i visi amici:
considerate se questo è un uomo,
che lavora nel fango,
che non conosce pace,
che lotta per mezzo pane,
che muore per un sì o per un no.
Considerate se questa è una donna
senza capelli e senza nome,
senza più forza di ricordare,
vuoti gli occhi e freddo il grembo
come una rana d’inverno.
Meditate che questo è stato:
vi comando queste parole.
Scolpitele nel vostro cuore,
stando in casa andando per via,
coricandovi alzandovi;
ripetetele ai vostri figli.
O vi si sfaccia la casa,
la malattia vi impedisca
i vostri nati torcano il viso da voi.”